Mafia S.p.a.: la principale impresa italiana
di Roberto Giurastante
La criminalità organizzata in Italia è la principale impresa del Paese. La Mafia S.p.a. che raggruppa Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, Stidda, ha un fatturato annuo stimato di 170 miliardi di euro (fonte Il Sole 24 ore). A questi si dovrebbero aggiungere i 250 miliardi dell’evasione fiscale spesso collegata alle mafie.
Quattrocentoventi miliardi di euro. Un quarto della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. Questi sarebbero i proventi delle attività illegali nel “bel paese”. Proventi che devono essere poi reinvestiti e fatti fruttare. E qui entrano in gioco le mafie dei colletti bianchi. Quelle delle acquisizioni societarie.
Così la Mafia S.p.a. è riuscita negli anni ad estendere il proprio impero finanziario a livello planetario. D’altronde chi ha tanti soldi da investire non ha che da scegliere. Imprese commerciali, finanziarie, banche, organi di informazione, società ad alta tecnologia, energia, edilizia. Nessun problema. I denari arrivano a cascata, e i prestanome sono sempre disponibili. Così fioriscono nuove figure di imprenditori “illuminati”. Quelli che spuntano dal nulla. I cosiddetti “self-made men”. Miracoli della finanza creativa e della globalizzazione. Globalizzazione mafiosa però.
Ma queste mafie polimorfe non si occupano solo – ed ai più alti livelli – di economia.
In Italia sono pure riuscite, con un’avanzata inarrestabile frutto di un’accurata pianificazione, ad infiltrarsi in ogni ganglo vitale delle istituzioni e ad occupare la stessa politica. Questa imperiosa scalata al potere è stata eseguita con metodologia militare, mettendo sotto controllo le posizioni nevralgiche del Paese. Un sistema basato sulla corruzione sistematica ha consentito di consolidare rapidamente le conquiste.
Nel libro paga della Mafia S.p.a. si trovano imprenditori, magistrati, poliziotti, giornalisti, medici, insegnanti, amministratori pubblici, politici, avvocati… Un’intera nazione sotto controllo e sotto ricatto.
Mafie del cemento a Nord Est: Trieste un “sistema perfetto”?
Tra le più conosciute ed affidabili fonti di alimentazione di questo inossidabile sistema di corruttele vi è certamente quella che comunemente viene definita come mafia o partito del cemento. Lavori e appalti pubblici e privati sono uno dei principali collettori per le enormi masse di denaro riciclate dalla Mafia S.p.a.
E nel nostro Paese sono proprio le “ricche” regioni del Nord ad attrarre la “ricca” criminalità in necessità di investire i proventi delle attività criminose. Qui infatti si può operare in relativa tranquillità e con migliore reddittività rispetto all’ormai saturo Meridione. Il colore dei soldi è quello della ricchezza, non quello del sangue e delle sofferenze che vi sono dietro.
Il Nord Est è ancora più interessante di questi tempi perché colpito duramente dalla crisi economica. Molte imprese da rilevare facilmente quindi. Molti buoni affari da concludere nel nome dello sviluppo e delle garanzie occupazionali. Ecco così che il vento della rivoluzione mafiosa ha investito impetuosamente queste zone spazzando via ogni ostacolo.
La piccola e degradata provincia di Trieste non fa eccezione nel deprimente panorama nazionale. Qui il partito del cemento si identifica in toto con la pubblica amministrazione ed è rappresentato da un potente cartello dei costruttori. La capitale del Territorio Libero è un caso speciale quanto esemplare di come la convivenza pacifica tra Stato e criminalità abbia anestetizzato ogni possibile difesa della società civile. Permettendo così la stratificazione dell’illegalità diffusa ad ogni livello ed entrata inconsciamente nella mentalità dei cittadini privati dei loro diritti e ridotti sempre di più a sudditi.
Una vera cultura dell’illegalità ora molto difficile da eradicare. A Trieste la mafia esiste da tempo, ma è strettamente intrecciata alla potente massoneria locale e ai servizi segreti deviati. A Trieste la mafia non uccide perché tutti i picciotti sono inquadrati, disciplinati, obbedienti.
Un sistema di governo “perfetto” quindi che ha consentito negli anni traffici di ogni tipo. Dalle armi, alla droga, ai rifiuti tossico nocivi. E il controllo completo degli appalti. Il settore prediletto dalle mafie del cemento, una delle travi portanti di questa economia criminale.
I filtri del “sistema”: come inattivare l’autorità giudiziaria
Cosa accade quando questo sistema “perfetto” viene minacciato, ovvero quando qualche rappresentante della società civile ne contesta l’operato e chiede il rispetto della legalità fino in sede giudiziaria? Scatta l’allarme rosso, e tutti i componenti del sistema si attivano per bloccare l’aggressione. E chi ha osato mettere a repentaglio la “cosca” deve essere reso innocuo. E punito.
La punizione pubblica in un simile sistema deviato è necessaria per dimostrare che il potere (mafioso) costituito è ben saldo, e che nessuno deve permettersi di contestarlo.
E’ una necessità vitale: solo facendo vivere nel terrore i sudditi se ne può ottenere il rispetto. Ma la punizione da queste parti è in genere incruenta, o meglio dolorosa ma senza spargimento di sangue diretto (solo così può essere tollerata dalle istituzioni che del sistema fanno parte). Ed è una punizione che, paradossalmente, può anche passare indirettamente per l’autorità giudiziaria, il guardiano di questo “ordine”. Hai voluto denunciare gli illeciti? Ora finirai tu sotto processo come perturbatore dell’ordine (disordine) costituito.
A me è capitato. A chi, nel nostro gruppo di ambientalisti, si è opposto a questo “sistema” è capitato. Le accuse vanno dal classico reato d’opinione (la famosa diffamazione che vale solo per te, non per i tuoi avversari che possono avviare nei tuoi confronti campagne di intimidazione e denigrazione pubblica rimanendo impuniti), all’interruzione di servizio pubblico (ad esempio se chiedi l’accesso a documenti pubblici ti possono pure denunciare perché con le tue richieste hai rallentato il lavoro dell’amministrazione pubblica…), al procurato allarme (se tu segnali un inquinamento esistente possono denunciarti per allarmismo), alla manifestazione non organizzata e sediziosa (in Italia vale ancora la legge fascista che non consente ai cittadini di ritrovarsi in luogo pubblico se superano il numero di tre). E poi il massacro continua con le cause civili per risarcimento dei danni.
Alla base dell’inertizzazione delle azioni degli ambientalisti (e in generale dei gruppi organizzati che sono considerati ovviamente più pericolosi rispetto ai singoli cittadini) ci deve comunque essere una “struttura” che garantisca che le denunce presentate all’autorità giudiziaria vengano insabbiate, ovvero non portino ad alcun risultato. Questa struttura a Trieste è estremamente efficace e permette in tempi rapidi di risolvere casi anche complessi.
Ma se le denunce degli ambientalisti sono fondate e basate su prove documentali inattaccabili come è possibile non procedere? Semplice, si applica una giustizia che potremmo definire “creativa”. Ovvero una libera, o meglio disinvolta, interpretazione delle leggi che porta ad un unico risultato: l’archiviazione. Archiviazione che può avvenire con varie motivazioni basate sempre comunque sull’infondatezza della notizia di reato. Qualche volta, se non è sufficiente e per maggior sicurezza, si utilizza anche la formula della mancanza di legittimità ad agire nel caso specifico da parte dell’organizzazione non governativa e di chi la rappresenta, e non lo si avvisa quindi nemmeno della richiesta di archiviazione, che così passa tranquillamente senza opposizioni. Quindi se si vuole intervenire per bloccare un danno ambientale, le cui conseguenze ricadono sulla collettività, pur essendo portatori di interessi diffusi non si ha diritto a denunciare il reato. Solo l’amministrazione pubblica (che quasi sempre è direttamente partecipe a quel reato) può farlo. E ovviamente questo non accadrà mai: chi sarebbe così stupido da autodenunciarsi?
Ma prima di questo filtro (utilizzato spesso dal GIP che decreta così l’archiviazione definitiva delle inchieste) ce n’è un altro a monte utilizzato direttamente in fase di indagine preliminare e che consiste nello svolgere le inchieste in maniera sbrigativa e superficiale già indirizzandole verso l’archiviazione.
Come può accadere questo? Entriamo più in dettaglio nei meccanismi della macchina della giustizia affrontando i casi che qui ci interessano relativi alla speculazione edilizia.
Una delle particolarità della Procura della Repubblica di Trieste (organo inquirente) è di avere in organico un gruppo di P.G. (Polizia Giudiziaria) dei vigili urbani del Comune di Trieste con specifiche competenze in materia di polizia edilizia. Ed è a questo nucleo che vengono affidate quasi tutte le inchieste in materia di urbanistica. Ma come, direbbe chiunque, indagini così delicate su illeciti urbanistici nei quali sono direttamente coinvolti i comuni locali, vengono affidate a dipendenti delle stesse amministrazioni? Come è possibile questo? E l’esito è ovviamente scontato (c’è da dubitarne?): le denunce per illeciti urbanistici in cui siano coinvolte amministrazioni pubbliche non vanno avanti. Basterebbe questo per far sorgere legittimi dubbi sul funzionamento di un siffatto apparato di giustizia. Ma non basta.
Gli stessi ufficiali di P.G. dei vigili urbani hanno potuto svolgere anche il ruolo di P.M. (pubblico ministero) nel dibattimento in procedimenti in cui una delle parti in causa era un Comune direttamente collegato a quello da cui loro dipendevano.
Anche qui ovviamente non ci sono dubbi su come sia andata a finire: ha vinto il Comune…
Quando le inchieste devono essere archiviate ancora più sbrigativamente e non è nemmeno necessaria la “competenza” dei vigili urbani vengono affidate ai carabinieri. Stesso risultato in tempi ancora più rapidi.
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Chi designa la P.G.?
Il P.M. che dovrebbe stare assai attento alle più che evidenti incompatibilità. Proprio il nuovo Procuratore della Repubblica di Trieste Michele Dalla Costa (cognato del potente avvocato – nonché parlamentare – Niccolò Ghedini legale del premier Silvio Berlusconi) al suo insediamento aveva messo in evidenza che la P.G. doveva comportarsi con la massima correttezza. Evidentemente aveva ricevuto delle informazioni non proprio positive sull’operato di tale organo della Procura nella capitale del Territorio Libero all’epoca della conduzione del suo predecessore, Nicola Maria Pace. Quest’ultimo è relativamente noto per essere assurto all’onore delle cronache nazionali avendo ingiustamente accusato un cittadino innocente, l’ing. Elvo Zornitta di Pordenone, di essere il terrorista bombarolo Unabomber e rovinandogli l’esistenza (Pace dichiarò – ad indagini in corso – di avere individuato il colpevole su prova certa che si rivelò poi contraffatta dalla stessa Polizia Giudiziaria). Peccato che poi alle parole del nuovo Procuratore non siano seguiti i fatti. Dopo un lungo periodo di “rodaggio” di un anno e mezzo, si può tranquillamente affermare che nulla è cambiato sotto il cielo della Procura di Trieste. Con buona pace (in memoria del vecchio procuratore) dei poveri cittadini-peones.
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Ma certo il top in fatto di “sveltine” (intese come indagini rapide) è rappresentato da quelle inchieste che si svolgono senza indagini.
In questo caso il P.M. ne chiede direttamente l’archiviazione a “vista” accampando magari motivazioni contraddittorie, spesso incomprensibili e che magari non riguardano nemmeno il procedimento in esame. E se anche si presenta opposizione il solito GIP ne decreta l’inammissibilità in quanto l’operato del PM è “insindacabile”. Discorso chiuso. E il denaro che questi progetti si portano può così riprendere a scorrere.
Come il “sistema” punisce gli oppositori
Parlavo prima delle conseguenze per chi si espone in questa lotta contro questo “sistema mafioso”. Le ribellioni nel nome della legalità non possono infatti essere tollerate e devono quindi venire adeguatamente represse.
Se i cittadini cominciassero ad associarsi in queste battaglie e la cultura della legalità si diffondesse il “sistema” sarebbe messo a serio rischio.
E questa è una cosa che in una dittatura seppur imperfetta quale è il sistema italiano, non può essere permessa. Posso riportare in merito la mia esperienza personale essendo fresco di condanna riportata per avere denunciato e provato un illecito urbanistico.
Come già detto, anche il piccolo Stato di Trieste, pur essendo solo amministrato dal Governo italiano, è stretto nella morsa della cementificazione imposta dal potente cartello dei costruttori. Una delle maggiori valvole di sfogo per questa colata di cemento è rappresentata dalla gradevole, antica cittadina costiera di Muggia al confine con la Slovenia. Il Comune di Muggia vanta anche il triste primato dell’inquinamento essendo stato negli ultimi 50 anni uno dei principali recettori di quel vasto sistema di smaltimento incontrollato di rifiuti tossico nocivi che ne ha deturpato irrimediabilmente il territorio. Un Comune devastato quindi e facile preda di imprenditori senza scrupoli e delle mafie associate.
In attesa che si sviluppi l’affare delle bonifiche con i lucrosi giri di finanziamenti pubblici e di riciclaggio di denaro che esse porteranno, gli interventi più redditizi rimangano quelli legati all’edilizia d’assalto, che qui significa centri commerciali: il nuovo Eden dello sviluppo economico. Almeno così vengono presentati.
Ecco che quindi che in pochi anni i centri commerciali spuntano come funghi, in un’area che non ne avrebbe proprio bisogno trovandosi a poche centinaia di metri dal confine con la Slovenia, dove esistono analoghe e più convenienti strutture. E infatti una volta realizzati si riveleranno fallimentari. Ma l’importante è fare girare denaro.
L’unica opposizione a questi mostri di cemento è stata quella della nostra associazione, all’epoca gli Amici della Terra di Trieste da me rappresentata.
Nel 2003 presentavo numerosi esposti alla Procura della Repubblica di Trieste nei confronti dei due principali progetti, quello del centro commerciale Freetime e quello del centro commerciale MCC.
Le violazioni erano molteplici andando dalla mancata predisposizione della Valutazione Ambientale Strategica, alla violazione dei vincoli ambientali e paesaggistici gravanti sulle aree, al mancato rispetto delle norme urbanistiche regionali. Ma tutto finiva nel nulla.
Le indagini consistevano semplicemente nel chiamare a deporre i funzionari dell’ufficio tecnico del Comune di Muggia – da ritenersi quindi indagati – che confermavano che le autorizzazioni concesse erano in regola; e sulla base di questa autocertificazione venivano archiviate le inchieste senza altre verifiche.
I centri commerciali d’altronde erano un cospicuo affare. Il solo Freetime della Coopsette prevedeva un’investimento di 120 milioni di euro. E i soldi comprano tutto e spazzano via ogni ostacolo. Ma non poteva finire lì. L’ambientalista che aveva messo i bastoni tra le ruote e che con le sue denunce continuava a rappresentare un pericolo per il “sistema” doveva essere messo a tacere. Bisognava dargli una dura lezione.
Così mi venne ritorto contro il mio stesso esposto sulla clamorosa irregolarità urbanistica dell’altro centro commerciale realizzato dalla società MCC (l’attuale centro Castorama di Muggia). L’accusa era di avere offeso la pubblica amministrazione ovvero il Comune di Muggia rappresentato dalla commissione edilizia.
Venni rinviato a giudizio e condannato in primo grado al termine di un processo in cui il ruolo dell’accusa (P.M.) venne affidato dalla Procura ai vigili urbani di Trieste, cioè a dipendenti amministrativi del sindaco Dipiazza, già assuntore e amico del sindaco di Muggia (querelante) Gasperini, mentre il giudice risultava essere un avvocato ex candidato alle elezioni amministrative locali nello stesso partito dei querelanti (Forza Italia-Polo delle Libertà).
La condanna venne confermata in appello da un giudice monocratico, essendomi stata negata la possibilità di essere giudicato da un collegio come sarebbe dovuto avvenire vista l’accusa di offesa ad un corpo politico-amministrativo, nonostante riuscissi nuovamente a dimostrare l’illecito urbanistico commesso dai querelanti che era alla base della mia denuncia e origine della loro successiva querela.
Nel corso del processo d’appello riuscì inoltre a dimostrare che i querelanti avevano reso falsa testimonianza collettiva al fine di ottenere la mia condanna.
Ma il giudice ed il P.M. che avrebbero dovuto esercitare l’obbligatoria azione penale non lo fecero lasciando così impuniti i querelanti.
L’apertura del procedimento penale contro i falsi testimoni avrebbe determinato il collasso delle accuse contro di me nel processo e l’avvio di indagini effettive sulla liceità della realizzazione del centro commerciale, ponendolo a rischio.
Ad una verifica successiva emerse che la mia opposizione alla richiesta di archiviazione dell’esposto sull’illegittimità urbanistica del centro commerciale era stata inserita in altro fascicolo relativo ad un altro mio esposto sulle irregolarità di un progetto di sviluppo turistico nello stesso Comune. Tale manipolazione degli atti si è rivelata poi determinante per gli sviluppi del caso. Infatti il GIP ha archiviato sia il procedimento relativo al centro commerciale in fittizia assenza di opposizione, sia quello relativo al progetto di sviluppo turistico poiché l’opposizione in atti non riguardava quel procedimento. Risulta inoltre che gli atti erano stati ritrasmessi al P.M. che pur in presenza della contestazione del GIP non provvedeva a disporre la reintegrazione dell’atto oppositivo al fascicolo di pertinenza per sanarne l’archiviazione illegittima. Dando così via libera al Comune di Muggia per presentare la querela nei miei confronti. Querela che veniva immediatamente recepita dalla Procura affidando l’inchiesta allo stesso P.M. e allo stesso ufficiale di P.G. dei carabinieri – indaganti dunque su proprie indagini – i cui comportamenti omissivi avevano consentito sia l’archiviazione per l’illecito urbanistico, sia la presentazione della querela nei miei confronti.
La condanna è stata poi confermata rapidamente dalla Cassazione pur in presenza di elementi che avrebbero dovuto portare alla revisione dell’intero processo.
La sentenza non è stata peraltro ancora resa disponibile nonostante mia richiesta diretta motivata tra l’altro con la necessità di produrla quanto prima alla Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo dove ho presentato ricorso per violazione delle norme sull’equo processo, sul divieto di discriminazione, sulla libertà di opinione e di espressione.
Per avere denunciato nel pubblico interesse un illecito urbanistico grave e documentato commesso in forma associativa da personaggi influenti per consentire una grossa operazione speculativa cospicua sono stato processato e condannato su loro denuncia calunniosa al pagamento complessivo di circa 40.000 euro.
Ecco quale è la risposta del “sistema”. Giustizia è fatta. Salvi gli interessi del partito del cemento e pubblica punizione per il contestatore che dovrà pure pagare i danni.
Devo dire che io ho denunciato queste situazioni aberranti di malagiustizia e privazione dei diritti fondamentali del cittadino agli organi disciplinari dell’autorità giudiziaria. Ma questo non è “gradito” ai magistrati. Il suddito non deve permettersi di alzare la testa e nemmeno sfiorare con lo sguardo il potente padrone. Le sentenze devono sempre essere accettate e non si discutono (le possono contestare solo i potenti, ovviamente). È questo quello che si sente sempre ripetere il povero cittadino nel corso di tutta la sua esistenza in virtù di quel principio (ormai ammuffito) di sacralità delle istituzioni. Ma se lo Stato è mafioso? Il cittadino deve subire supinamente e stare zitto? Scusate, ma io non ce la faccio. Anche se poi mi condannano.
Spesso mi sento chiedere (soprattutto dai giornalisti stranieri per la verità, visto che quelli italiani sono appiattiti sul sistema che li ha generati…) come se ne esce. Ovvero come l’Italia, o per lo meno il Territorio Libero di Trieste potrà uscire da questa oppressione controllata, da questo degrado che sembra inarrestabile. La risposta non può che essere una: la rivoluzione della Legalità. Una rivoluzione che deve partire dal basso. Non saranno certo le istituzioni corrotte (i gattopardi) ad autoriformarsi. Devono essere i cittadini ad esercitare i loro diritti e a smetterla di essere sudditi. Basta con la delega (il voto) ai partiti corrotti.
I cittadini devono raggrupparsi nel nome della Legalità e lottare per la Legalità ogni volta che è necessario. E coloro che si trovano in prima fila per affermare questi diritti collettivi e che sono quindi facile bersaglio per i poteri deviati mafiosi, non possono essere abbandonati al loro destino. Attorno a loro deve essere eretto un muro insormontabile da parte dei cittadini onesti: un muro di Legalità.
La rivoluzione della Legalità è la battaglia civile principale in questo nostro Stato, nel Territorio Libero di Trieste. Ma per fare partire questa rivoluzione ognuno di noi deve trovare il coraggio dettato dalla dignità e vincere la paura. Nessuno allora potrà arginare questa piena. E il nostro Stato potrà finalmente riconquistare la sua Libertà.