di Franz Widmar

Per difendere l’ambiente, e con esso la vita, non basta combattere gli inquinamenti e le devastazioni: occorre anche avere il coraggio di denunciare apertamente i meccanismi di corruzione pubblica e privata che li producono.

Perché tutti gli inquinamenti e le devastazioni che non siano incidenti occasionali sono prodotti da sistemi di corruttela che intrecciano interessi privati e connivenze istituzionali in reti illegali di potere trasversale per realizzare profitti illeciti a spese di tutti.

I “sistemi” più noti, estesi ed influenti sono le organizzazioni classiche di tipo mafioso e camorristico, nazionali e transnazionali, con le loro metastasi nelle istituzioni e nella politica di uno o più Paesi.

Ma vi sono anche categorie di sistemi minori, che in realtà diverse e più limitate riescono a svolgere efficacemente attività analoghe, come la discarica abusiva dei veleni industriali ed il controllo degli appalti. E con impunità anche maggiori proprio perché non fanno parte, perlomeno direttamente, dei grandi sistemi indagati di criminalità organizzata e riconosciuta, e perché esercitano con mezzi più silenziosi ed incruenti il proprio controllo sulla società, le istituzioni e l’informazione.

Le indagini che pubblicheremo qui riguardano ambedue le categorie di “sistemi” e le loro connessioni, a tutti i livelli.

A cominciare da una realtà molto particolare, tra Italia e Slovenia.

I. Il “Sistema Trieste” DAGLI  Inquinamenti  AGLI  appalti 

La bella e plurinazionale città-porto di Trieste, dove è stata fondata la nostra organizzazione, è anche un caso speciale quanto esemplare di questi ‘sistemi’ minori ma efficientissimi, che qui la Magistratura non ha potuto sinora nemmeno scalfire nonostante l’impegno di magistrati ed investigatori anche molto validi.

Vedremo qui dunque di inquadrare la struttura di questo “Sistema Trieste” sintetizzandone due aspetti fondamentali, annosi e pure notori, quelli su inquinamenti ed appalti pubblici, che i media locali sembrano non aver mai potuto o voluto pubblicare, e tanto meno indagare e denunciare seriamente.

Confermando di fatto l’esistenza di una pressione disinformativa occulta che viola le garanzie democratiche costituzionali della libertà d’informazione, conculcandone sia il dovere dei giornalisti che il diritto dei cittadini rispettivamente a fornirla ed ottenerla in maniera quanto più chiara, completa ed imparziale.

Anche a Trieste il “sistema” ha ovviamente interessi ed attività ulteriori, che arrivano sino alla copertura, se non all’esercizio, di traffici marittimi e terrestri di rifiuti e altro che si snodano anche qui fra Europa, Africa, Asia minore ed oltre.

Una zona industriale  sul mare come discarica  di  inquinanti, ed altre ancora

Il modo di operare del “Sistema Trieste” è bene rappresentato dal caso della Zona Industriale realizzata come discarica impunita di inquinanti parassitando ingenti risorse dello Stato e della città stessa. Senza che nessuno, da decenni, denunci mai seriamente i fatti, benché noti e documentati.

Occorre anzitutto sapere che Trieste ed il suo porto sorgono su un esiguo arco marnoso-arenaceo stretto tra il mare e l’altipiano carsico petroso e battuto d’inverno dal forte vento freddo di bora. I terreni agricoli attorno alla città sono sempre stati perciò ridottissimi ed in parte di difficile accesso, tranne le due brevi valli terminali piane dei torrenti carsici Rosandra-Glinscica ed Ospo-Osp, adatti alle colture di cereali, orti, vigneti, oliveti, frutteti, con pascoli di pregio ed antiche saline.

Le foci dei due fiumi formavano anche le prime zone umide importanti dell’Adriatico orientale, sia per il passo degli uccelli acquatici da tutta l’Europa centrale ed orientale, sia per la presenza di altre specie oggi protette.

Dopo la seconda guerra mondiale le preziose terre fertili di ambedue le valli sono state espropriate e distrutte a spese pubbliche tramite un apposito ente, l’E.Z.I.T. – Ente Zona Industriale di Trieste – interrandoli per realizzare una zona industriale sul mare, ma ampliata fuori misura per scopi ben diversi dagli insediamenti produttivi.

L’interramento delle due valli è servito infatti per decenni come discarica gratuita incontrollata di enormi quantità di rifiuti tossico-nocivi industriali e di cantiere, in una colossale speculazione che risparmiava alle imprese i costi di smaltimento regolare delle sostanze pericolose, e li ha riversati sull’ambiente e sulla salute pubblica distruggendo habitat naturali e risorse agricole, inquinando il suolo, le falde acquifere ed il mare, con latenza, dispersione continua  e assorbimento inavvertito di sostanze tossiche.

Finendo per colpire anche il lavoro nella stessa  zona industriale, quando il suo stato di inquinamento gravissimo è infine emerso ed il Ministero dell’Ambiente l’ha dovuta dichiarare “Sito inquinato d’interesse nazionale”, paralizzandone l’utilizzo e sviluppo sino a bonifica sia per nuovi impianti che per le per le imprese già insediate sui lotti di terreno che l’ EZIT aveva venduto loro nascondendone lo stato di inagibilità sanitaria.

Questo colossale inquinamento continuato, sia nelle attività di discarica che nelle conseguenze, comporta evidentemente  responsabilità penali e civili pesanti e non prescritte a carico dei responsabili, mentre le bonifiche hanno costi altissimi e tempi lunghi.

Ed è altrettanto evidente che i responsabili civili e penali sono, prima ancora delle imprese che hanno scaricato i loro rifiuti tossico-nocivi, gli Enti pubblici che ne hanno consentita la discarica dovendo impedirla: primi fra questi l’EZIT ed i Comuni di Trieste e di Muggia, e personalmente i loro amministratori, tutti politici o di nomina politica.

Così come è palese che il concorso impunito pluridecennale di parti pubbliche e private in questi gravi reati continuati non può non appartenere al “Sistema Trieste”. 

E continuerà ad appartenervi  finché si omette di contestare i reati ed il risarcimento dei danni ai veri responsabili, affidando le bonifiche allo stesso EZIT che ha inquinato e tentando di accollarne le spese allo Stato,  o addirittura alle imprese che lo stesso EZIT aveva  frodato vendendo loro come agibili i terreni inquinati.

Per non dire delle manovre per estendere la Zona industriale con nuove discariche, sia a mare, sia nelle aree pianeggianti superstiti delle due valli “bonificate”.

La storia di questa zona industriale-discarica inizia poco dopo la seconda guerra mondiale, con l’interamento graduale della parte bassa della valle della Rosandra, detta valle di Zaule, ed è stata coperta materialmente ed amministrativamente  con lo scarico di materiali di scavo e demolizione “inerti” che invece contengono spesso percentuali anche elevate di inquinanti molto pericolosi.

Rimaneva  ancora intatta la parte bassa  della valle dell’Ospo, detta valle delle Noghere, l’ultima grande zona agricola ed umida della provincia di Trieste.

Dal 1959 venne anch’essa inclusa, in due tranches, nella Zona Industriale senza che vi fosse alcuna necessità reale o seriamente prevedibile di impiantarvi imprese, dato che l’area di Zaule era ancora semivuota,  e lo rimase a molto a lungo.

Per “bonificare” le Noghere innalzando di due metri il livello del suolo fu così autorizzata la discarica di “inerti” su 1.500.000 metri quadrati, cioè per circa  3-4 milioni di metri cubi di materiali.

Questa “bonifica”, che sarebbe dovuta cessare all’inizio del 1980, era invece anche discarica di rifiuti industriali – come conferma ancora nel 1979 un documento ufficiale dell’Associazione Industriali di Trieste – incluse le ceneri tossiche (diossina) degli inceneritori di Trieste, Monfalcone e Mestre.

(foto di Barbara Mapelli) Pasta zara

La discarica risulta inoltre continuata sino al 1981, ed i carotaggi ora eseguiti per la bonifica del suolo nell’area dello stabilimento “Pasta Zara 2” hanno dato un deposito di materiali di riporto spesso sino a 7 metri.

Tenendo dunque conto della natura del suolo originario, della diversa compattezza dei materiali e del genere di rifiuti sinora rinvenuti, si può calcolare che alle Noghere siano stati scaricati per vent’anni senza alcun vero controllo non 3-4, ma oltre 10 milioni di metri cubi di materiali solidi e liquidi, formati  in buona parte da rifiuti industriali tossico-nocivi (e da alcune testimonianze sembra vi scaricassero anche materiali delle esumazioni dal cimitero comunale di Sant’Anna). 

La quantità stessa dei materiali scaricati confermerebbe che non provenivano soltanto da Trieste e provincia, ma anche dal resto della Regione, e forse da più lontano.

Da sondaggi recenti risulta che attualmente in alcuni punti della Valle delle Noghere gli inquinanti costituiscono almeno il 55% del terreno  (550 grammi per chilo): si può parlare di avvelenamento, più che di inquinamento.

Nel 1981-82 la discarica delle Noghere venne sostituita con la realizzazione di un terrapieno a mare entro il margine settentrionale dell’area demaniale del Porto di Trieste. Il luogo è a ridosso immediato dell’abitato periferico di Barcola, con porticciolo da pesca e diporto, e dell’omonima riviera balneare triestina, che si estende sino al romantico castello di Miramare ed è frequentata da decine di migliaia di persone.

Lo stesso Comune di Trieste vi riversò le ceneri tossiche dell’inceneritore, e sul terrapieno-discarica avvelenato  venne poi concesso l’insediamento di società nautiche e stabilimenti balneari.

Esaurita anche Barcola, nel 1984 il “Sistema Trieste” progettò di utilizzare l’intera area industriale ancora vuota delle Noghere, sino a ridosso del confine italo-sloveno, per costruirvi una centrale elettrica a carbone, che avrebbe occupato l’intera area industriale e giustificato anche la costruzione di un porto carboni con un colossale interramento a mare per altri 1.500.000 metri quadrati.

Per la profondità e cedevolezza dei fondali marini melmosi quest’operazione avrebbe potuto assorbire dai 30 ai 50 milioni di metri cubi di materiali da discarica: l’immondezzaio speculativo gratuito di mezza Italia settentrionale, con effetti devastanti sull’intero vallone di Muggia, sulla circolazione delle correnti nel golfo di Trieste, e quant’altro; mentre la centrale avrebbe inquinato l’aria, scaricando anche piogge acide su città,  colture e boschi in Italia, Slovenia e Croazia per un raggio di un buon centinaio di chilometri.

A Trieste pochissimi sapevano e sanno – e nessuno l’ha mai detto o scritto – che l’abbandono di questo progetto disastroso non fu un successo delle proteste ambientaliste triestine, né di un comitato elettoralistico creato da alcuni politici quando a livelli riservati si sapeva che la partita era ormai chiusa.

Fu infatti merito jugoslavo: Belgrado, intervenne direttamente su Roma dopo aver accertato che la centrale avrebbe inquinato pesantemente anche l’Istria ed Carso sloveno, peggio di quella già esistente di Monfalcone cui avrebbe sommato i propri effetti.

Nel 1987 il”Sistema” ripiegò pertanto su una riapertura della discarica delle Noghere ampliandola sul fronte mare, al di là della strada per la finitima cittadina di Muggia, e senza le minime garanzie antinquinamento. Gli interessi e le connivenze in gioco erano tali che degli allora 60 consiglieri comunali di Trieste fu – come per altre enormità impunite – uno solo, l’indipendente Paolo G.Parovel, ad opporsi e denunciare la situazione e le sue logiche conseguenze; alcuni altri consiglieri evitarono invece di partecipare alla discussione od al voto (cfr. verbali seduta n.171 del 19.5.87).

Nel 1998-2001 è stata invece realizzata proprio nel Comune di Muggia la discarica inquinante a mare del terrapieno “Acquario”, con licenze di destinazione ad impianti balneari e turistici ma usata per scaricare a costo zero rifiuti tossico-nocivi scavati nei lavori di trasformazione del vicino ex cantiere navale San Rocco nell’omonimo porto e villaggio turistico (con collinetta di altri rifiuti tossici sulla spiaggia, per i giochi dei bambini).

San Rocco – Muggia (foto di Barbara Mapelli)

Benché le discariche a mare siano vietate per legge, questa venne autorizzata e comunque consentita da tutte le autorità che avrebbero dovuto impedirla (Comune, Provincia e Regione, ecc.), e quando degli allevatori di mitili protestarono la Capitaneria di Porto li sottopose a ispezione e minacciò per iscritto la revoca della concessione perché gli impianti balneari previsti sarebbero stati d’interesse pubblico prevalente.

Nessuna di queste autorità ha inoltre vigilato su cosa venisse effettivamente scaricato nel terrapieno, infine sequestrato nel 2003 su denuncia degli Amici della Terra. In un primo processo, nei confronti dei corresponsabili privati ma non di quelli pubblici, è emerso pure che parte dei rifiuti tossici di San Rocco venivano scaricati alle Noghere (ancora!) ed altrove.

Per quanto riguarda dunque prezioso bene ambientale delle valle delle Noghere, da tutti questi elementi risulterebbe evidente che sia stata in realtà espropriata e devastata, usando somme rilevantissime di denaro pubblico, non tanto per la necessità di insediarvi imprese (rimase infatti a lungo ed è tuttora in buona parte inutilizzata) ma soprattutto per “risparmiare” a livello locale e regionale i costi privati dello smaltimento regolare ed altrove di enormi quantità di rifiuti industriali, imposto con rigore crescente dalle leggi italiane e dalle norme europee.

Ed è altrettanto indicativo del “Sistema Trieste” che nonostante l’avvelenamento drammatico della zona fosse documentatamente ben noto alle istituzioni sanitarie sin dal 1975, l’EZIT poté continuare tranquillamente sia a lasciare scaricare gli inquinanti; sia a vendere i terreni alle imprese, anche di grandi dimensioni e persino per prodotti alimentari, come di recente per lo stabilimento Pasta Zara 2, dove si è dovuta estrarre e stoccare provvisoriamente un’intera collina di rifiuti tossici.

Mentre a Barcola ed a Muggia (Acquario) si è continuata ad usare la stessa procedura di autorizzare discariche incontrollate a mare, riempiendole di inquinanti e poi coprendole con l’insediamento di attività, addirittura balneari.

Va aggiunto che negli anni in cui non si potevano più usare le discariche delle Noghere e di Barcola, cioè tra il 1982 ed il 1987 e dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, i loro utilizzatori devono aver necessariamente scaricato altrove masse altrettanto ingenti dello stesso genere di rifiuti.

Rimane dunque da accertare seriamente dove, come e con quali consensi e controlli di quali enti istituzionali.

Gli inquinatori potrebbero anche aver utilizzato la “bonifica” più vicina, quella del Lisert ovvero delle Terme di Monfalcone, zona umida salmastra del massimo pregio ambientale, archeologico e turistico, che è stata invece interrata a discarica per  creare una zona industriale ancor più sovradimensionata e tuttora semivuota, di cui la Magistratura sta infine accertando gli inquinamenti.

Certo è che come ripiego vennero utilizzati la grande discarica comunale triestina presso Trebiciano-Trebce ed i suoi dintorni, e che il Club di Trieste degli Amici della Terra- Friends of the Earth ha già individuato tutta una serie di discariche abusive od utilizzate irregolarmente.  nella provincia di Trieste, ed in particolare sul Carso, dove tendono ad inquinarne l’intero sistema sotterraneo.

Tra queste c’è anche un’ex cava riempita di rifiuti anche radioattivi. La discarica, autorizzata dal Comune di Duino-Aurisina, corresponsabile quello di Trieste, era stata gestita da una nota impresa nazionale in odore di camorra, poi svanita nel nulla con un asserito fallimento di cui non si troverebbero gli atti giudiziari. Gli Amici della Terra segnalarono il fatto alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, cui nel 2000 la Procura di Trieste precisa che questa società, la Ecormed srl, sarebbe stata «parte di un oligopolio di dieci aziende raccoglitrici di rifiuti radioattivi di provenienza civile », ma non procede; nel 2002 gli Amici della Terra presentano perciò un esposto basato anche su rilevamenti dell’Università di Trieste, ma nel 2003 la stessa Procura chiede ed ottiene in due giorni l’archiviazione per prescrizione, senza indagini e senza informarne i denuncianti per l’eventuale opposizione. La discarica inquinata è sempre lì.

Ed é significativo che l’omertà pluridecennale di autorità e media locali sulla realtà drammatica di tutte queste discariche tossiche si sia spezzata soltanto quando il sequestro giudiziario del terrapieno inquinato di Barcola – sempre su impulso degli Amici della Terra – ha colpito direttamente le attività e gli interessi delle migliaia di soci ed utenti delle associazioni sportive e balneari che vi erano state insediate.

Com’é anche significativo che contemporaneamente ai casi Acquario e Barcola i troppo attivi ed indipendenti Amici della Terra triestini si siano trovati sotto improvviso, pesantissimo attacco convergente, con accuse di “giustizialismo” e simili, da parte del “sistema” locale e della dirigenza nazionale romana italiana dell’associazione, che da Roma ha preteso di toglier loro il nome; e col Tribunale civile di Trieste che ha dato prima torto e poi sorprendentemente ragione ai dirigenti romani, in parallelo ad iniziative della Procura locale per delegittimare il gruppo triestino ed archiviarne alcune denunce.

Mentre Friends of the Earth International (Amsterdam) ha deciso di indagare ufficialmente sui comportamenti anomali della sezione italiana.

I “CARTELLI” DEGLI APPALTI  PUBBLICI

Tra le strutture portanti “Sistema Trieste” vi sono anche “cartelli” degli appalti pubblici.

Si tratta in sostanza di gruppi di imprese organizzate attorno ad uno o più capofila dominanti, con lo scopo e con il risultato illeciti di monopolizzare l’esecuzione delle opere pubbliche di un territorio escludendo la concorrenza  e spartendosi i lavori secondo regole proprie.

L’adesione delle imprese minori al cartello può essere di partecipazione volontaria in vista di profitti così garantiti,  ma anche di sottomissione forzosa poiché il rifiuto può comportare l’esclusione di fatto da qualsiasi lavoro conveniente su piazza.

Per ottenere questi risultati un “cartello” degli appalti ha ovviamente bisogno di due condizioni fondamentali, ben note dalle cronache italiane e non solo del martoriato meridione.

La prima condizione è disporre di adeguate, illecite connivenze politiche e/o istituzionali, che vengono in genere ricompensate altrettanto illecitamente con voti, finanziamenti a partiti o personali, e con altri benefici diretti o indiretti.

La seconda è la garanzia illecita che alle gare d’appalto non partecipino, o non  partecipino seriamente, imprese concorrenti da fuori piazza. Poiché il “cartello” non può condizionarle direttamente, questa garanzia dev’essere fornita da chi può gestire un sistema di condizionamenti illegali su scala regionale e nazionale, come le organizzazioni di tipo mafioso.

E la garanzia viene ricompensata per lo più acquistando da loro ditte di copertura forniture sovraffatturate di beni e servizi esenti da certificazione antimafia (come nel settore edilizio i materiali da costruzione e l’affitto di macchine da movimento terra).

Tra i “cartelli degli appalti” triestini, che non si identificano necessariamente in toto con questo schema ma di fatto svolgono la stessa illecita funzione monopolistica, spiccano le vicende quasi ventennali di un gruppo d’imprese edili associate – volenti o nolenti – nel consorzio cui si riferiscono anche gli atti istruttori ormai pubblici del procedimento penale n. 6043/02 RGNR del Tribunale di Trieste, con indagini della Guardia di Finanza, su gare per la costruzione di parcheggi sotterranei, ove nel 2003 ne troviamo così definiti i ruoli:

«Il CIET Consorzio Imprese Edili Triestine S.r.l. è stato costituito il 17.11.1986 ed il 26.07.2001 è stato posto in liquidazione. Ad esso sono state associate le maggiori imprese triestine operanti nel settore dell’edilizia.
In merito al ruolo che il CIET avrebbe svolto nel corso degli anni in relazione agli appalti pubblici appare interessante quanto emerge da due documenti sequestrati […]. In particolare su un foglio dattiloscritto, il cui contenuto anche se in maniera parziale è ripreso nella lettera dd. 09.05.2001 […], si evidenzia in sintesi che:

il CIET è sempre stato il braccio operativo del Collegio [dei Costruttori, ndr.] in una prospettiva iniziale di potere ottenere appalti in concessione a favore dell’imprenditoria locale. […]
Quanto già accertato in merito al ruolo svolto dal CIET nella “vicenda parcheggi” appare strettamente connesso con quanto segnalato da PAROVEL nell’esposto indicato in premessa il quale ha evidenziato che il CIET (e quindi le imprese di costruzione ad esso associate) farebbe parte di un “sistema” per l’assegnazione di opere pubbliche triestine che coinvolgerebbe anche politici e professionisti.»

Gli inquirenti si riferiscono alle dichiarazioni e documentazioni probatorie del noto giornalista investigativo triestino Paolo G.Parovel, già consigliere comunale indipendente dal 1982 al 1988 con  una propria lista di mitteleuropei, verdi e radicali, nonché titolare e conduttore dal 1986 al 2003 del noto settimanale radiofonico d’informazione “L’Altra Trieste”.

Parovel era stato il primo a denunciare, nel 1987, alla Procura di Trieste operazioni anomale del CIET e dell’amministrazione comunale.

La Procura archiviò allora la denuncia in pochi giorni benché i fatti fossero provati su base documentale, e così accadde per denunce integrative ed ulteriori presentate o promosse da lui negli anni 1990, 1992 e 1993 dallo stesso Parovel, che nove anni dopo dichiara in merito agli investigatori, tra altro che:

[…] – gli esposti riguardavano in particolare grandi opere che, come il cosiddetto intervento di “recupero” di Cittavecchia … venivano affidate in concessione senza nemmeno gara d’appalto in forza di un rapporto trasversale privilegiato tra partiti, professionisti ed imprese […] con il risultato di realizzare un monopolio delle grandi opere pubbliche del Comune di Trieste in violazione delle norme di concorrenza ed economicità di spesa e di una sostituzione delle imprese al Comune nella scelta degli affidatari di opere pubbliche in regime di concessione e dunque di elusione sistematica delle gare d’appalto;

il CIET risultava formato da alcune imprese dominanti il “cartello” e le sue relazioni trasversali, e da imprese subordinate che erano state costrette ad aderirvi per non rimanere escluse da qualsiasi lavoro importante sulla piazza di Trieste;

la rete di rapporti privilegiati tra politici, professionisti ed imprese ha determinato una situazione ambientale di omertà, impedimento alle indagini e “punizione” degli oppositori;

il valore complessivo delle opere pubbliche interessate dal caso si aggirava sui 1000 miliardi di lire.
[…] Nel corso della mia attività di consigliere comunale ebbi ripetutamente a constatare che parallelamente ed in sinergia al “cartello” di imprese facenti capo al CIET vi era un “cartello” di professionisti che in pratica monopolizzava le progettazioni pubbliche di rilievo e dal 1984 aveva cominciato ad ottenere anche incarichi urbanistici che avrebbero dovuto essere svolti da tecnici del Comune. Contemporaneamente questi stessi professionisti monopolizzavano più o meno a turno ma con costante presenza collegata ai medesimi interessi le Commissioni Urbanistica ed Edilizia del Comune, che l’amministrazione malgrado reclami ometteva di rinnovare benché scadute a volte da anni. Questi professionisti risultavano collegati all’intero arco dei partiti politici in una distribuzione di posti che la stampa locale stessa denunciava come concordata.»

Così proseguono in merito gli inquirenti:

«Si ritiene opportuno evidenziare che tutti i lavori affidati al CIET (per importi di diverse decine di miliardi), sulla base di quanto riportato sui predetti documenti, sarebbero stati affidati in regime di convenzione e/o concessione senza alcuna gara. Tale circostanza emergerebbe anche dalla lettura dei verbali del CdA del CIET. Il CIET avrebbe poi affidato la realizzazione dei lavori ad imprese associate allo stesso, le quali avrebbero costituito apposite società […].
Sulla base di quanto sopra evidenziato sembrerebbe che il CIET e le imprese triestine ad esso associate per anni abbiano beneficiato di un rapporto “privilegiato” e pressochè “esclusivo” con il Comune di Trieste per quanto concerne l’affidamento in concessione e conseguente realizzazione di opere pubbliche.»

E concludono, esaminate le prime prove:

«Da quanto sopra esposto emergerebbe una sorta di continuità nell’operato del CIET e dei soggetti ad esso collegati (costruttori e professionisti) finalizzati all’ottenimento di appalti pubblici (sia in concessione che attraverso l’espletamento di gare) del Comune di Trieste, sulla base della quale non si può escludere che l’esistenza di “accordi”  tra le perincipali imprese aderenti al CIET risalga fino alla metà degli anni ottanta ovvero alla costituzione del CIET stesso. […] Pertanto, appare verosimile ritenere che anche le vicende inerenti alla “gara parcheggi” si inseriscano in tale contesto. Infatti, gli elementi emersi nel corso delle indagini finora svolte in merito a detta gara (ruolo di promozione e coordinamento assunto dal CIET, accordi tra imprese, incarichi a professionisti, collaborazione pre-gara Comune/CIET, ecc.) sembrerebbero confermare l’esistenza del “sistema” evidenziato da PAROVEL, fondato su un “rapporto trasversale privilegiato tra politici, professionisti e imprese”.

Le caratteristiche di continuità dei reati, ipotizzati dagli inquirenti nell’ambito dell’associazione a delinquere finalizzata alla turbata libertà degli incanti (artt. 416 e 353 c.p.) sono decisive, poiché escludono la prescrizione consentendo di procedere per l’intero ventennio di attività evidenziato,  e le indagini ulteriori – brillantemente condotte dalla GdF e dal PM (dott. G. Milillo) anche tramite intercettazioni – hanno confermato il tutto.

Ma nel 2007 la magistratura triestina non ha infine riconosciuto la documentata continuità dei reati, così applicando prescrizione anche ai fatti relativi alla gara parcheggi.

Dalle vicende relative e dagli stessi atti istruttori emergono anche altre informazioni decisamente inquietanti.

Parovel per queste ed altre sue denunce del “sistema” triestino subì pesanti ritorsioni ambientali: minacce di morte, incendio dell’auto, accompagnati  da boicottaggi economici e censure stampa che impedirono anche la sua rielezione nel 1988, del che si vantarono poi sui media le stesse imprese leader del “cartello”; è tuttora (2007) sottoposto a silenzio stampa dai due quotidiani monopolisti locali, di lingua italiana e di lingua slovena: i suoi libri non vengono recensiti, e le notizie sulle sue iniziative giudiziarie e culturali o non vengono pubblicate, o lo sono omettendo il suo nome; la sua trasmissione radiofonica, dove  continuava  nelle denunce del malaffare economico e politico, é stata eliminata nel 2003 acquistando segretamente le frequenze ed i ripetitori dell’emittente.

Quasi contemporaneamente alle prime denunce di Parovel (1987-88) un colonnello della Guardia di Finanza avrebbe trovato prove su tangenti di costruttori locali a partiti e politici su conti esteri, ma la sua indagine venne insabbiata e lui angariato sino a costringerlo alle dimissioni, il tutto ad opera di superiori successivamente risultati coinvolti in malversazioni.

Non ebbero seguito giudiziario nemmeno contestuali inchieste e rilievi sul “cartello” di un periodico locale poi estinto, né quelle pubblicate poi, con esplicita denuncia anche di tangenti, da testate italiane ed estere autorevoli come l’Espresso, l’Indipendente, l’Unità, il Manifesto, la Neue Zürcher Zeitung e da un noto  libro su Tangentopoli (L’Italia a sacco).

Inoltre lo scopo ‘sociale’ dichiarato dal CIET, quello di garantire lavoro alle imprese triestine, riguarda certamente i loro titolari e professionisti collegati ma ben poco i lavoratori e fornitori locali, poiché le opere risultano svolte prevalentemente con imprese, operai e subforniture da fuori provincia.

Mentre le cronache quotidiane ci confermano che lo stesso “cartello” d’imprese e professionisti, forte di un’impunità di fatto ulteriormente consolidata, continua a prosperare indisturbato negli stessi rapporti privilegiati con il Comune di Trieste ed altri enti locali: rapporti che a questo punto sembra si ritengano legittimi od almeno legittimati dall’agire della Giustizia italiana.

È invece capitolo ancora aperto cosa ne pensino, sulla base delle medesime evidenze ed indagini, le istituzioni competenti dell’Unione Europea.