Poco più di un anno fa denunciavamo pubblicamente l’esistenza di una rete di depositi militari abbandonati sulle alture di Montedoro tra i Comuni di San Dorligo dalle Valle-Dolina e Muggia. Si trattava di una struttura realizzata quasi completamente sotto terra. Una cittadella fortificata con almeno 14 depositi blindati e a varie profondità (foto: l’accesso di uno dei bunker). Dal terreno emergevano tra la fitta vegetazione numerosi “periscopi” con la funzione di sfiatatoi.  Sia le tracce di petrolio presenti ancora sul fondo e sugli accessi delle cisterne, sia le pungenti esalazioni di vapori di idrocarburi che avvolgevano l’area davano chiaramente l’impressione che ci si trovasse di fronte ad un grande deposito di carburanti per le forze armate realizzato all’epoca della seconda guerra mondiale.

L’intera collina era stata per decenni un’area militare e quindi preclusa a qualsiasi controllo da parte delle amministrazioni civili. Ancora oggi non è chiaro se questa zona, tutt’ora recintata, sia ritornata nelle disponibilità delle amministrazioni locali o faccia – seppure impropriamente – sempre parte del demanio militare. L’unica cosa certa è che non si è  mai pensato di bonificare i terreni e di inertizzare le cisterne dalle quali l’inquinamento continua a diffondersi lentamente avvelenando l’ambiente circostante. Eppure interrata accanto ai depositi militari dismessi passa la condotta dell’acquedotto comunale. Possibile che nessuno si sia mai preoccupato della pericolosità di tale situazione per la salute pubblica?

Ma forse questa indifferenza ha una sua spiegazione. Forse questa “misteriosa” collina cela o ha celato qualcosa di più pericoloso dei semplici carburanti, qualcosa di più letale le cui tracce potrebbero essere ancora presenti nelle viscere di Montedoro: questa “verde”  collina al confine con la Slovenia potrebbe avere nascosto uno degli ex depositi super segreti delle armi chimiche italiane.

L’Italia aveva accumulato prima e durante la seconda guerra mondiale un notevole arsenale di armi chimiche e batteriologiche (sperimentandole sul campo durante la guerra  di occupazione dell’Etiopia, anche nei confronti della inerme popolazione civile) pronte all’uso. Gli agenti chimici più diffusi erano l’iprite, il fosgene, l’antrace, l’arsenico. I gas venivano utilizzati nei proiettili di artiglieria dall’esercito e dalla Marina, e nelle bombe dall’areonautica militare. Almeno 1.000 le tonnellate di iprite utilizzata anche in bidoni. In soli due depositi nel Piemonte sono stati rinvenuti 110.000 proiettili di artiglieria di vario calibro con testate al gas, dalle munizioni per i cannoni da 75 millimetri fino ad arrivare ai calibri pesanti da 305 millimetri caricati a fosgene (uno solo di questi proiettili avrebbe potuto sterminare migliaia di persone).

Con l’apertura del fronte ad est si era reso necessario un ridislocamento dell’arsenale chimico per un possibile utilizzo delle armi nel teatro di guerra balcanico. E certamente Trieste, al confine con la Jugoslavia, si trovava in una posizione strategica e con un grande porto con impianti petrolchimici nei quali potere trasportare e immagazzinare le armi chimiche pronte all’uso. Ma per incrementare la sicurezza e proteggersi dai bombardamenti aerei sarebbe stato comunque necessario che i depositi venissero occultati anche all’interno delle stesse raffinerie, o meglio ancora direttamente interrati in zone esterne.

Una raffineria che rispondeva perfettamente a questi requisiti esisteva ed era l’Aquila, inaugurata nel 1937 all’ingresso del porto industriale di Trieste nella Baia di Muggia e sovrastata proprio dalle alture di Montedoro. Nel 1941 iniziarono i lavori di costruzione della cittadella sotterranea nella collina di Montedoro collegata tramite condotte alla stessa raffineria.

L’esistenza di questa rete fortificata sotterranea fatta di bunker e condotte non poteva certo sfuggire agli alleati, ma solo la raffineria Aquila venne attaccata a più riprese. Il bombardamento aereo più massiccio e devastante avvenne il 10 giugno del 1944 e determinò praticamente il blocco dell’attività della raffineria fino alla fine della guerra. I bunker di Montedoro rimasero invece intatti. Forse che gli alleati avessero evitato di colpirli sapendo cosa vi si celava?

Se una parte delle armi dell’orrore dell’arsenale chimico italiano è stata nascosta in queste colline rimane da scoprire che fine hanno fatto. Dopo l’8 settembre 1943 Trieste venne annessa dalla Germania che potrebbe poi avere fatto sparire l’arsenale prima del termine della guerra e certamente per impedire che ne entrassero in possesso i partigiani jugoslavi. Sparire come? O disperdendo le munizioni a mare o nell’altopiano carsico alle spalle della città gettandole nelle grotte.

Gli stessi alleati una volta subentrati ai tedeschi ed avendo assunto il controllo della provincia di Trieste, nel frattempo dichiarata capitale del Territorio Libero di Trieste, potrebbero avere avuto interesse ad eliminare un arsenale così scomodo e che comunque non sarebbe dovuto tornare sotto controllo italiano. E’ da ricordare che un metodo all’epoca utilizzato per “eliminare” i residuati bellici era semplicemente di seppellirli all’interno delle opere di interramento a mare avviate proprio dal Governo Militare Alleato. Questo avvenne ad esempio con l’interramento del lungomare di Barcola (pineta), ora principale zona balneare cittadina.

Il problema non riguarda quindi solo le colline di Montedoro. Dal 1954, con l’insediamento dell’amministrazione civile provvisoria italiana, venne avviata una massiccia operazione di smaltimento rifiuti nell’intera provincia (si veda l’articolo “operazione discariche”). Le discariche vennero realizzate ovunque, dal mare, ampliando gli interramenti esistenti e realizzandone di nuovi, all’altopiano Carsico dove doline e grotte vennero sfruttate senza scrupolo. Le due maggiori discariche vennero realizzate interrando i tratti terminali delle valli dei torrenti Rosandra e Ospo, divise proprio dalle alture di Montedoro. Non mancarono neanche le discariche sottomarine che fiorirono nel Golfo di Trieste. E così un territorio che in base al Trattato di pace del 1947 era stato dichiarato indipendente venne invece trasformato in discarica di Stato dalla vicina Repubblica italiana.

I punti oggi a maggiore rischio per la possibile presenza di armi chimiche sono la Valle delle Noghere (dove sono già stati rinvenuti ordigni bellici), l’area dell’ex discarica di Trebiciano sul Carso triestino, numerose grotte sull’altopiano carsico (molte occultate facendone saltare gli accessi), alcune discariche costiere (terrapieno di Barcola – canale navigabile di Zaule – ferriera di Servola), e certamente quelle sottomarine nel Golfo di Trieste.

Una situazione ora di non facile soluzione non solo per i danni rilevantissimi portati all’ambiente e alla salute della popolazione di questo piccolo Stato ma anche per la devastazione che l’Italia ha portato nell’ordinamento internazionale riducendo – sempre simulandovi una sovranità perduta dal 1947 – il Porto Franco Internazionale di Trieste ed il suo territorio in una  “libera” discarica di Stato distruggendone economia e traffici commerciali. Il tutto in perfetta ed impunita violazione del Trattato di Parigi del 1947 (foto sotto: fusti per materiale chimico in una discarica sul Carso triestino).